In mezzo, tra di noi, infinite possibilità
by Laura De Marco
Petra Stavast è un’artista che nel corso di una più che ventennale carriera ha usato la sua pratica per indagare uno degli aspetti quintessenziali della fotografia: l’incontro con l’altro e l’altra da sé. L’ha fatto a partire dal formidabile intuito di chi sa dove cercare quegli aspetti universali che accomunano tutte le storie di vita personali, come i legami familiari, i rapporti interpersonali, gli incidenti di percorso, la costante ricerca di sé; di chi sa riconoscere in dettagli o avvenimenti apparentemente insignificanti la possibilità di costruire la narrazione di una storia molto più rilevante e complessa di quanto i suoi stessi protagonisti possano credere, perché il suo sguardo esterno è sensibile e bisognoso di conoscere quelle storie, investigarle e restituirle, per poter costruire, progetto dopo progetto, attraverso questo continuo guardare fuori per riportare dentro, un filo conduttore anche per la propria esistenza.
Lo scavo in archivi fotografici personali e la fotografia di ritratto sono elementi caratterizzanti del lavoro artistico di Stavast, insieme a una profonda attività di ricerca per comprendere la chiave di lettura e le modalità più adatte per ricostruire la complessità dei protagonisti e delle protagoniste delle storie a cui si è dedicata. Due progetti sono fondamentali a tal proposito, Libero (Roma publication, 2009) e Ramya (Roma publication, 2014) – non a caso nomi di persona come titoli –, entrambi viaggi lunghi e articolati alla scoperta di quanto ancora esiste ed è importante recuperare delle vite di Libero Greco, figlio di una storia di immigrazione dalla Calabria agli Stati Uniti nell’immediato secondo dopoguerra, e di Anneke, una donna olandese meglio nota come Ramya, dalla vita turbolenta e dal passato inusuale.
Ma con l’ultimo lavoro di Stavast, quello esposto tra le mura della galleria di Spazio Labo’ e pubblicato dalla casa editrice Roma publication nel 2022, succede qualcosa di diverso, che già dal titolo segna un cambio di approccio rispetto alla produzione precedente: S75, una sigla asettica e ambigua che spiazza per l’apparente assenza di una componente personale.
Eppure, anche in questo caso c’è in qualche modo un rimando a un possibile nome proprio. Chi o cosa è “S75”? Il Siemens S75 è il primo telefono cellulare dotato di fotocamera integrata che Stavast abbia mai usato, uno strumento apparentemente lontanissimo dalla sua pratica di artista che da sempre predilige i medi e grandi formati della fotografia analogica, e con cui entra in contatto quasi per caso quando, nel 2005, la compagnia Siemens gliene invia un modello in prova. Stavast inizia a usarlo durante un periodo di lavoro in Cina, per fare ritratti alle persone in viaggio con lei, e nonostante l’iniziale riluttanza e confusione verso quel minuscolo oggetto – considerato oggi obsoleto, con una fotocamera dalla risoluzione massima di 1280×960 pixel, e anche all’epoca piuttosto problematico da usare per una fotografa col suo approccio –, al suo rientro in Olanda si rende conto che qualcosa di nuovo e particolare è emerso da quelle sessioni di scatto con l’apparentemente inadeguato strumento digitale.
Quei ritratti, impossibili da fare in piena luce a causa della scarsezza tecnologica del mezzo, si sono trasformati in sessioni di incontro nell’intimità del semibuio, in cui i dieci secondi del timer dell’autoscatto – impostato da Stavast per cercare una maggior stabilità d’immagine – si sono rivelati l’aspetto più importante del processo. In quei dieci secondi, infatti, Stavast intuisce l’aspetto quasi magico, di potenza trasformativa per lei e la persona di fronte a lei, che segna l’inizio di S75 come progetto a lungo termine che ha visto coinvolte almeno duecentoquarantaquattro persone in quindici anni di lavoro, in diverse parti del mondo.
La serie di immagini presenti in S75 crea un paesaggio umano fatto di volti, a distanza più o meno ravvicinata, che emergono dal nero, in alcuni casi con un’apparenza quasi fantasmatica, eppure tutti vivissimi: tutte le persone rispondono a quei dieci secondi di attesa prima dello scatto automatico con l’unica aspettativa di dire “eccomi, ci sono” alla minuscola macchina fotografica davanti a loro.
Ecco il cuore di ciò che è la fotografia per l’artista olandese: un processo, una liturgia, una pratica che ci fa immergere nella individuale complessità e bellezza dell’essere umano. Anche nell’arco di soli dieci secondi.
Dai lavori precedenti a S75 c’è il passaggio dalla ricerca di un incontro a posteriori – ritrovamento di archivi, recupero di memorie e testimonianze, persone vive che rievocano la vita di persone morte – a un contatto immediato e tangibile con i propri soggetti; da una fotografia che si interfaccia sempre con immagini già esistenti e dialoga con esse, a una pratica diretta, seriale e ripetitiva, mera prassi, pura gioia del gesto.
Un passo necessario per Stavast stessa in quanto fotografa: un apparente esercizio di stile con risvolti profondi e inaspettati per mettere alla prova la solidità del suo pensiero sul mezzo fotografico e su quel momento fondamentale di scambio che intercorre tra una persona con un dispositivo fotografico e un’altra che da quel dispositivo si fa ritrarre e , in qualche modo, raccontare. È quanto mai significativo che questo passaggio sia avvenuto attraverso la rinuncia alla formalità della tecnica fotografica tradizionale, della fotografia fine art tout court, per abbracciare l’immediatezza, l’incontrollabilità e dunque l’aleatorietà della più passeggera delle tecnologie fotografiche digitali, quella cellulare.
Stavast si inserisce questa volta in prima persona nel suo lavoro, condividendo uno spazio angusto, sia fisico – lo studio fotografico improvvisato nella sua Amsterdam e a Banff e Shanghai – che temporale, col suo corpo e con la leggerezza di una attrezzatura minima che la lascia vulnerabile di fronte ai suoi soggetti, per incontrare in maniera più letterale, veloce e diretta le persone da cui è affascinata e nelle quali riconosce quel potenziale narrativo che contraddistingue il suo sguardo.
Se questa volta il titolo del progetto vira sull’oggetto che mette in relazione le persone attraverso il loro reciproco guardarsi, ovvero lo strumento fotografico, e non sulle persone stesse, è proprio per la centralità del processo sul risultato. Processo che l’artista stessa mette alla prova realizzando di tanto in tanto, nei pochi minuti a disposizione prima dell’incontro con una persona da fotografare, degli autoritratti come per mettersi nei panni di chi poserà di fronte a lei, per capirne l’imbarazzo, la paura, la fragilità, la rigidità, la volontà di condividere qualcosa di sé, o anche solo l’illusione di farlo. Perché in fondo, sfogliando le immagini di S75 non sappiamo chi stiamo guardando, leggiamo solo i nomi di persona che appartengono a questi volti, ma forse possiamo, attraverso di loro, riconoscere un noi collettivo o anche solo un barlume di noi.
I limiti della tecnologia fotografica sono parte centrale di S75 perché fanno sì che l’immediatezza della sessione di scatto faccia perdere ogni sorta di controllo all’artista e dunque anche ogni aspettativa sui risultati: sono di volta in volta le circostanze – la luce, la relazione e soprattutto il telefono-macchina fotografica – a creare il ritratto. Non ci sono più gli elementi caratteristici dell’opera di Stavast – come la stratificazione di linguaggi, la molteplicità di fonti delle immagini, il rapporto coi testi –, eppure rimane la potenza dell’esperimento: non c’è una posa identica all’altra, non emerge una visione unica ma un coro di esperienze e atteggiamenti diversi di centinaia di esseri umani che reagiscono ogni volta in modo diverso a un incontro a due in cui entrambe le parti sono ugualmente coinvolte e vulnerabili.
C’è anche una sorta di contraddizione tra l’immediata disponibilità delle immagini digitali e il loro aspetto che sfugge completamente alla realtà: i ritratti sono “rovinati” dai pixel mancanti e dalle sfumature di colore, la qualità inferiore ammorbidisce la durezza del dato reale, fungendo quasi da filtro per esso. Sapiente da questo punto di vista la scelta di produrre il libro S75 attraverso la stampa rotocalco, che grazie alla quantità di inchiostro rispetto alla leggerezza del supporto assorbe i “difetti” digitali delle immagini e crea un effetto quasi pittorico, astratto, esaltando l’aspetto granuloso delle fotografie e conferendo loro una luce soffusa che le situa in una atemporalità apparentemente in contrasto con la velocità del processo. I ritratti di S75 hanno l’apparenza di quelli dei quadri del Secolo d’oro della pittura olandese, ancora una volta una sorpresa alla base della sapiente arte di Petra Stavast.
Un cambio di approccio per l’artista olandese, dicevamo, ma forse si tratta solo di un modo di vedere le cose da un altro punto di vista: invece che lavorare a partire da materiale altrui, iniziare a costruire un archivio nuovo, personale, a partire dalla molteplicità di individualità che in maniera diversa appartengono alla nostra sfera di vita quotidiana; forzare un incontro a partire dalla mediazione della fotografia perché è lì, in mezzo, tra di noi, che si possono creare infinite possibilità.